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Schola News: Origini e sviluppi dei conflitti nell’Est della RDC: parole dal Nord Kivu di Aurora Guainazzi da LoSpiegone 31 Maggio 2023

Progetto Schola News

*Per garantire la sicurezza dell’intervistato, in questo testo non ne viene citato il nome e sono stati eliminati tutti i dettagli che possano permetterne l’identificazione.   

Da tempo, l’Est della Repubblica Democratica del Congo (RDC) è interessato da violenze. In questa prima intervista, abbiamo chiesto a un cooperante congolese, analista dei processi di cambiamento di lungo periodo nella regione dei Grandi Laghi, di aiutarci a capire origini, ragioni e prospettive dei conflitti che avvolgono la regione. 

Partiamo da una breve contestualizzazione del conflitto. Quali sono le sue origini e ragioni? 

La parte orientale della RDC ha come epicentro il Nord Kivu, confinante con Ruanda e Uganda. È una provincia multietnica, con diverse tribù: nande, hutu, tutsi, nyanga, tembo e kumu. Inoltre, tribù originarie di altre province (tra loro, bashi, havu e rega) si sono insediate nel Nord Kivu, in particolare nei grandi agglomerati urbani. 

L’origine dei gruppi armati è lontana. All’inizio, c’erano milizie etniche nate nel 1992, dopo l’operazione di identificazione dei connazionali, a seguito della quale le tribù che si dichiaravano autoctone (in particolare, hunde, nyanga, tembo e nande) si coalizzarono per rifiutare il riconoscimento dell’identità ai discendenti delle popolazioni hutu d’origine ruandese, i cui genitori erano stati insediati dai coloni belgi nei territori di Masisi e nella chefferie di Bwito (territorio del Rutshuru), tra il 1930 e il 1953. Ma questa negazione della nazionalità riguardava anche i rifugiati tutsi collocati nel Nord Kivu dall’Alto commissariato dell’ONU per i rifugiati dopo la Rivoluzione sociale ruandese del 1958

Allora ogni etnia costituì milizie di autodifesa. Ma i tutsi, già coinvolti dal 1990 nella guerra contro il Ruanda attraverso il Front Patriotique Rwandais (FPR), non erano interessati alla loro formazione. Quindi, le cosiddette milizie Mai-Mai (composte da hunde, nyanga, nande e tembo) combattevano contro quelle hutu, chiamate combattants o gardes civiles

Gli assassini del presidente ruandese hutu, Juvénal Habyarimana, e del suo omologo burundese, Cyprien Ntaryamira, il 6 aprile 1994 da parte dell’FPR, scatenarono l’attivismo dei gruppi armati e provocarono indignazione e collera tra gli hutu, non solo in Ruanda, ma anche in Nord Kivu e Burundi, dove Habyarimana era percepito come loro protettore. 

Habyarimana, in quanto amico del maresciallo Mobutu [presidente della RDC tra il 1965 e il 1997 N.d.R.], incarnava la protezione degli interessi degli hutu immigrati contro i detrattori della loro nazionalità. In Burundi, invece, era il principale sostenitore dei leader hutu dell’FDD

Nel giugno 1994dopo la vittoria dell’FPR sul regime di Kigali, molti hutu ruandesi, comprese le forze armate, si riversarono nel Nord e Sud Kivu. Fu proprio a Mugunga, nel Nord Kivu, che si installò lo Stato maggiore dell’armata ruandese col suo arsenale militare. Alcuni militari ruandesi e milizie Interahamwe iniziarono a infiltrarsi nelle zone rurali di Masisi e Rutshuru per cercare cibo e attaccarono famiglie tutsi che tornarono in Ruanda, abbandonando campi e beni. 

Nel 1996, nacque l’Alliance des forces démocratiques pour la libération du Congo (AFDL), guidata da Laurent Désiré Kabila, con l’obiettivo di rimpatriare con la forza i rifugiati ruandesi, ma anche eliminare le ex forze armate di Kigali e gli Interahamwe e rovesciare Mobutu. Nella sua spedizione militare, composta principalmente da giovani tutsi nati e cresciuti nel Nord e Sud Kivu, l’AFDL estese la sua vendetta su tutta la popolazione congolese, in particolare gli hutu. 

L’esecuzione di sistematici massacri su grande scala nei confronti dei congolesi e dei rifugiati hutu suscitò la rabbia collettiva dei sopravvissuti. Le ex forze armate ruandesi e gli Interahamwe si dispersero nel Nord e Sud Kivu, portando armi e munizioni che avevano dalla fuga del 1994. Fu così che i giovani congolesi hutu, hunde, nyanga e tembo ottennero ulteriori armi e formarono veri e propri gruppi di autodifesa. Nel frattempo, i ruandesi sopravvissuti all’AFDL, soprattutto i membri dell’ala militare, si ricostituirono nelle Forces démocratiques de libération du Rwanda (FDLR), movimento d’opposizione armato. 

Nel 1997, Kabila rovesciò Mobutu e prese il potere a Kinshasa con l’aiuto degli eserciti ruandese, ugandese e burundese. L’anno dopo, però, si accorse che i militari ruandesi continuavano a massacrare i congolesi e a saccheggiare le loro risorse (soprattutto minerarie) e decise di allontanarli. 

Denunciando l’ingratitudine di Kabila, i militari ruandesi ritornarono a Goma e attirarono l’interesse di alcuni quadri e giovani congolesi tanto da spingerli a creare una nuova ribellione. Nacque il Rassemblement congolais pour la démocratie (RCD Goma), che, poco dopo, si scisse in RCD Goma e RCD KML. Al contempo, nel Nord-Ovest, terra natale di Mobutu, si formò l’MLC, guidato da Jean Pierre Bemba, figlio di un uomo d’affari vicino al maresciallo. 

Questi tre movimenti ribelli, sostenuti nuovamente da Ruanda e Uganda, combatterono Kabila fino al suo assassinio, avvenuto il 16 gennaio 2001 a Kinshasa. Joseph Kabila succedette al padre e si impegnò in negoziati con i tre gruppi e l’opposizione non armata, raggiungendo, nel 2002 in Sudafrica, l’Accordo di Sun City mediato da Unione africana e comunità internazionale. Debuttò un regime “1+4” (un presidente e quattro vicepresidenti) che consacrò la riunificazione del Paese. 

Nonostante la nascita di due importanti movimenti ribelli, il Congrès national pour la défense du peuple (CNDP), guidato dal generale tutsi Laurent Nkunda e vicino al Ruanda, e la PARECO/FAP, diretta dal colonnello hutu Mugabo Hassan e volta a contrastare il CNDP, si trovò un compromesso per organizzare le prime elezioni democratiche, uno dei punti fermi dell’accordo. 

Nel 2008, dopo la Conferenza di Goma, una tavola rotonda di pace, fu firmato un accordo tra i gruppi e il governo, sfociato nell’integrazione dei ribelli nelle Forze armate della RDC (FARDC) e nella trasformazione di CNDP e PARECO/FAP in partiti politici. Ci fu allora un trasferimento di truppe alle FARDC e di responsabili politici alla politica nazionale, ma bisogna sottolineare come le armi restarono nascoste nei villaggi e non tutti i combattenti si arresero

Così, nel 2013, nacque il Mouvement du 23 mars (M23), chiamato così per un accordo siglato il 23 marzo 2009 a Nairobi tra CNDP e governo congolese e di cui l’M23 rivendicava la mancata applicazione. Il movimento fu poi sconfitto e i ribelli si rifugiarono, in esilio, in Ruanda e Uganda. 

Nel 2021, l’M23 è riemerso ai confini ruandesi e ugandesi. Di conseguenza, gli altri gruppi ribelli si sono organizzati per bloccarne la strada, agendo come appendici delle FARDC. Oggi, malgrado l’avanzata, l’M23 continua a essere sfidato dalla coalizione formata dagli altri movimenti di origine nazionale e dalle FDLR (di origine ruandese), a fronte dell’incapacità delle FARDC. 

Oggi i conflitti continuano, quali fattori ne spiegano la prosecuzione? 

I conflitti persistono a causa dei problemi esistenziali delle popolazioni, che sono mal compresi e non risolti da chi potrebbe farlo. 

Dapprima, la questione della nazionalità zaïroise [dello Zaïre, il nome attribuito alla RDC da Mobutu tra il 1971 e il 1997 N.d.R.] all’epoca di Mobutu e di quella congolese oggi. Questo problema coinvolgeva i tutsi rifugiatisi nello Zaire dopo la rivoluzione ruandese del 1959 che rovesciò la monarchia della minoranza tutsi a favore della maggioranza hutu. Ma riguardava anche la guerra dell’RCD, che rivendicava la nazionalità congolese per gli hutu e i loro discendenti immigrati dal Ruanda. 

L’Accordo di Sun City risolse la questione concedendo la nazionalità a chiunque si fosse stabilito sul suolo congolese o avesse un genitore insediatosi prima del 30 giugno 1960. Normalmente non dovrebbero più esserci problemi perché i richiedenti sono stati reintegrati nei loro diritti, diventando elettori ed eletti. 

In secondo luogo, la reintegrazione dei combattenti dei gruppi armati nell’esercito regolare, questione attualmente problematica e alla base della proliferazione e dell’attivismo dei movimenti armati nel Nord Kivu. Dopo la guerra di RCD e CNDP, i belligeranti hanno deposto le armi e dialogato. Ma poi il Parlamento congolese ha approvato una legge che vieta formalmente l’integrazione dei membri dei gruppi armati nell’esercito regolare

Questa legge è posteriore agli Accordi di Nairobi, che hanno permesso all’ala militare del CNDP di entrare nelle FARDC e a quella politica di accedere a posizioni di alto livello, come ministeri e direzioni aziendali, senza passare da vittorie elettorali. C’è quindi incompatibilità tra l’Accordo di Nairobi e la legge sull’esclusione dei membri dei gruppi armati dalle funzioni militari e politiche nella RDC. 

Poiché l’M23 è una metamorfosi successiva di AFDL, RCD e CNDP, vale la pena notare che i soldati tutsi, abituati ad accedere a gradi e funzioni militari col sistema dell’integrazione a seguito dei negoziati, si sono trovati in difficoltà dopo l’approvazione della legge che rigettava la procedura e stabiliva che tutti i ribelli dovevano sottoporsi al processo di DDR (disarmo, smobilitazione e reintegrazione nella vita civile). 

In terzo luogo, c’è una domanda di ritorno di rifugiati congolesi, principalmente tutsi, che vivono in Ruanda. Ma manca la volontà politica delle autorità congolesi di accelerarne il rientro, responsabilità condivisa dall’Alto commissariato dell’ONU per i rifugiati e dai Paesi di accoglienza. Il mancato ritorno dei rifugiati è uno dei motivi per cui i loro figli prendono le armi nell’M23. 

Le condizioni per il loro rientro non sono soddisfatte a causa della presenza di gruppi armati locali e stranieri, in questo caso le FDLR. Molti gruppi sono ostili ai tutsi, da cui proviene l’attuale leadership ruandese, a sua volta ostile agli hutu. 

L’equazione è quindi difficile da risolvere. Questi tutsi, che reclamano il ritorno nella RDC, hanno vissuto a lungo nel Paese e possiedono terre, bestiame e case. Ma come possono riottenere i loro beni in uno spazio di sicurezza volatile, se lo Stato congolese non ristabilisce la sua autorità? I gruppi armati ostili ai tutsi talvolta godono delle loro ricchezze, sfruttando i campi e saccheggiando il bestiame. 

In quarto luogo, i regimi di Kigali e Kampala traggono profitto dal conflitto congolese. Un’analisi attenta mostra la mano nera del regime ruandese: a ogni spedizione di un gruppo ribelle sospettato di beneficiare del suo supporto, si assiste al sistematico saccheggio di beni destinati al Ruanda. 

I beni di base e i veicoli diventano bottino di guerra. I minerali raggiungono le aziende americane, attraverso i porti dell’Oceano indiano. Da questo punto di vista, possiamo considerare Ruanda e Uganda surrogati degli Stati Uniti, poiché permettono di accedere ai minerali della RDC a prezzi bassi agli americani, che non possono esitare dall’armare le ribellioni sostenute da Uganda e Ruanda. 

Anche la demografia del Ruanda e la rarità di terre stanno causando tensioni nel Nord Kivu, dove i ruandesi, soprattutto pastori tutsi, utilizzano tutti i mezzi possibili per ottenere terre: il loro possesso nelle società agricole significa potere. Altresì, l’espansione del commercio ruandese nell’area costituisce un problema, soprattutto nel caso di minerali, prodotti agricoli e tecnologie. L’oro dell’Est è stato a lungo venduto a Kigali, Kampala e Bujumbura; il coltan supera ogni giorno il confine ruandese, così come il caffè che attraversa il lago Kivu. 

Questi prodotti sono venduti all’Occidente, soprattutto a Stati Uniti, Canada e Unione Europea, che proteggono gli Stati che sostengono le ribellioni nell’Est della RDC: le transazioni includono la fornitura di armi e munizioni. 

In relazione alla formazione dei gruppi armati hai spesso citato le etnie, qual è il ruolo dell’etnicità nel conflitto?

Il concetto di etnicità nell’Africa dei Grandi Laghi designa un gruppo di persone con una discendenza comune, che condividono valori, lingua e costumi.  Qui, nell’Est, le etnie sono numerose. Certe affermano di essere autoctone, considerando le altre non native o direttamente straniere. Alcune si ritengono discendenti dei bantu, altre dei nilotici. I contorni e i confini di queste concezioni dell’identità non sono facili da stabilire.   

Nel Nord Kivu, per esempio, hunde, tembo, nyanga e nande si considerano autoctoni, in contrapposizione a hutu e tutsi ritenuti non nativi (con l’eccezione della chefferie di Bwisha, dove ci sono hutu e tutsi originari di questa entità consuetudinaria). Questa realtà nel Nord Kivu è stata alla base delle guerre etniche nel 1965 (guerra di Kanyarwanda) e nel 1993 con il conflitto innescato dall’operazione di identificazione delle nazionalità. 

Hunde, nyanga, tembo, nande e hutu affermano di essere discendenti dei bantu, mentre i tutsi sono nilotici. Queste identità trovano origine nelle storie lontane delle migrazioni africane, alimentando dibattiti politici attuali e diventando fonte di stigmatizzazione ed esclusione sociale, economica e politica. 

L’etnicità interviene anche nel conflitto odierno tra M23 e governo di Kinshasa. La guerra dell’M23 è portata avanti da tutsi, tra cui congolesi che si battono per ritornare a casa, ritenendo di essere esclusi dal potere di Kinshasa. Ma ci sono anche militari tutsi e hutu dell’esercito ruandese che combattono contro il governo congolese. 

Prima c’erano milizie affiliate a popolazioni autoctone che volevano cacciare hutu e tutsi. Oggi invece, sempre più spesso constatiamo come questa coalizione sia superata. C’è piuttosto una coalizione di movimenti hunde, hutu, nande e nyanga che combatte al fianco delle FARDC contro l’M23. Così, coloro che ieri combattevano tra di loro ora fanno fronte comune contro l’M23, ritenuto la ribellione dei tutsi contro gli altri congolesi. 

Quali sono le tue aspettative sul futuro del conflitto e pensi che sia possibile arrivare alla pace? 

Questo conflitto è il risultato di regimi africani che cambiano raramente senza bagni di sangue. Uganda e Ruanda sono ausiliari degli americani per accedere alle risorse minerarie congolesi. Per questo, è necessaria una reale volontà degli Stati Uniti di rinunciare al sostegno militare e politico a Ruanda e Uganda, affinché i ribelli smettano di avanzare e imporsi con la forza. 

In secondo luogo, è necessaria un’apertura democratica a Kampala e Kigali per permettere il dialogo tra ugandesi e ruandesi e il ritorno dei rifugiati nei rispettivi Paesi. L’esercizio del potere da più di 25 anni in Ruanda e 35 in Uganda da parte di una persona sola sta diventando nepotismo. 

In terzo luogo, bisogna ripartire in modo inclusivo le risorse nella RDC e instaurare un’autorità forte e una giustizia efficaci nella lotta all’impunità. 

Infine, è fondamentale sviluppare un piano comunitario di recupero e riabilitazione inclusivo per evitare il riemergere di tensioni sociali alimentate dalle diseguaglianze. Un piano che includa progetti infrastrutturali capaci di accelerare un vero sviluppo, come strade, centrali di produzione energetica, centri di trasformazione agricola, porti, ferrovie, aeroporti e fabbriche.  

Per gentile concessione de LoSpiegone - In Trouble Be Clear

https://lospiegone.com/2023/05/31/origini-e-sviluppi-dei-conflitti-nell-est-della-rdc-parole-dal-nord-kivu/ 

Autore: Vito Conteduca - 16/6/2023



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