Le Nazioni Unite definiscono migrante “qualsiasi persona che vive in via temporanea o permanente in un paese dove non è nato e con il quale ha sviluppato dei legami sociali rilevanti”. Sotto questa definizione sono racchiuse diverse sottocategorie –i rifugiati, i richiedenti asilo, gli irregolari o le vittime di tratta –tutte caratterizzate da condizione di vulnerabilità, derivate dalla lontananza dal proprio paese di origine, dalle difficoltà economiche in cui versano, ma soprattutto dalle barriere linguistiche e culturali che incontrano giungendo in un nuovo paese.
Ma non solo, c’è da aggiungere che la migrazione non avviene solo da un paese ad un altro, come sta succedendo in maniera biblica in questi ultimi anni, ma, soprattutto nel nostro paese, la migrazione ha interessato migliaia di persone che si son dovuti spostare da una regione ad un’altra e, non di meno, hanno dovuto affrontare la medesima “condizione di vulnerabilità … la lontananza dal proprio paese … le difficoltà economiche … ma soprattutto le barriere linguistiche e culturali”.
In preparazione di questa ricorrenza, Schola Mundi-Montale con l’Africa propone agli studenti del Liceo di raccogliere testimonianze di migrazioni all’interno delle proprie famiglie, tra i genitori, i nonni e, quando ci sono, anche tra i bisnonni, e di elaborarne il racconto con l’insegnante di riferimento della classe.
I racconti possono essere raccolti anche con mezzi di registrazione audio e/o video-fotografici disponibili
Il giorno della celebrazione del Migrante, nell’Auditorium del Liceo, le classi che avranno partecipato al progetto si riuniranno per presentare i lavori alle personalità del mondo della politica e della cultura che saranno invitati a intervenire.
Le classi che intendono partecipare all’iniziativa devono comunicarlo alla Prof.ssa Rita Pasquini.
I lavori dovranno essere consegnati all’associazione Schola Mundi-Montale con l’Africa entro il giorno 3 dicembre per aver modo di organizzare la performance del 18 e raccoglierli tutti in un ‘Quaderno di Schola’ a cura di Schola Mundi onlus.
Il programma della Giornata del Migrante sarà comunicato dopo tale data.
Schola Mundi onlus
Presidente
Vito Conteduca
Il film proiettato e commentato: La prima neve, storia di padri, figli, immigrati
(AGI) - Venezia, 6 set - "La prima neve e' la storia di un padre che impara a fare il padre con un figlio che non e' il suo", Andrea Segre descrive cosi' La prima neve (in Orizzonti), suo secondo lungometraggio dopo il pluripremiato Io sono Li del 2011, e prosegue: "Parla anche di un incontro tra culture diverse come in Io sono Li, ma qui il tema e' declinato in modo differente: l'integrazione riesce". Il film racconta dell'incontro tra Dani (Jean-Christophe Folly), un padre originario del Togo che combatte con il dolore provocato dalla nascita della figlia, e Michele (Matteo Marchel), un bambino di 10 anni irrequieto a causa della perdita del padre.
La vicenda si svolge tra i boschi del Trentino dove la neve e' di casa. Dani pero' non l'ha mai vista. Dopo essere scappato dalla guerra in Libia lavora nel laboratorio di Pietro (Peter Mitterrutzner), un vecchio falegname e apicultore che vive insieme alla nuora Elisa (Anita Caprioli) e al nipote Michele, stordito da un profondo dolore. L'unico con cui riesce a comunicare e' lo zio Fabio (Giuseppe Battiston), ma forse la prima neve dell'anno portera' delle novita'. "E' anche la storia dell'elaborazione di un lutto", aggiunge Segre. Tra i produttori di La prima neve c'e' anche l'artista Marco Paolini che dice di aver sostenuto il film "perche' era un prodotto in cui mi riconoscevo".(AGI) .
Per i racconti delle 'Interviste in Famiglia' quello di Chiara Pellegrini della IV A, uno degli elaborati letti dagli studenti-autori che hanno partecipato:
Ha gli occhi azzurri e i capelli scuri raccolti in una coda bassa. I baffi folti e la pelle chiara. E’ alto, con le spalle larghe come quelle dei padri. Ha un’aria severa, le mani grandi, le braccia forti e le gambe lunghe.
Si chiama Antonio ed è nato a Sora, in provincia di Frosinone, il 12 agosto del 1956. Ha due fratelli e una sorella, papà infermiere e mamma “grande lavoratrice”.
Dopo la scuola, si è trasferito a Roma, la grande speranza per chi viene dal piccolo paese.
Si è diplomato come infermiere professionale con specializzazione all’assistenza chirurgica, con abilitazione alle funzioni direttive. Ha iniziato a lavorare, ha trovato un impiego come caposala in un ospedale romano.
Poi ha incontrato i suoi occhi, ed è stato subito amore. “La seguo”, ha pensato, e l’ha fatto.
Nel maggio del 1982,a 26 anni, ha preso un aereo per Montreal, in Canada. Ha lasciato la vita che si era costruito: il suo lavoro, i suoi amici, la sua casa. Ha lasciato la sua famiglia con quella malinconia che solo chi l’ha provata può capire, mista alla paura e alla voglia di affrontare nuove esperienze e di ricominciare.
“Pur con alti e bassi, non mi sono mai trovato in gravi ristrettezze economiche, ma, nonostante ciò, ho dovuto affrontare numerose difficoltà. I primi sei mesi sono stati molto duri: non conoscevo la lingua e non avevo amici” Pur non essendo solo, la solitudine si è fatta sentire, una solitudine interna, che dal profondo l’ha scosso nelle piccole cose della vita quotidiana: “ Essendo il Canada un paese bilingue, mi sono da maggiormente legato alla parte francofona, ma, frequentando una scuola per emigranti, sono venuto a contatto con tantissime persone di culture diverse, con le quali ho stretto solidi legami.” C’era chi scappava dalla guerra,dalla fame, dalla povertà e dalla politica del proprio paese, chi aveva combattuto contro regimi dittatoriali, e chi, come lui, stava vivendo un’avventura tutta nuova”
Quello che a primo impatto lo ha colpito maggiormente è stato il trattamento ricevuto dagli uffici pubblici: “ Ero un emigrante ricevuto, entrato nel paese legalmente, e mi sono stupido della rapidità con cui mi sono stati forniti documenti (codice fiscale), numero telefonico e assistenza mutualistica. Ho notato subito una grande differenza dell’assetto burocratico rispetto a quello del nostro paese.”
“Faceva davvero un gran freddo” mi ha detto “questa è stata certamente una condizione molto difficile alla quale abituarsi”. Un altro grande ostacolo è stato quello linguistico, una barriera che, inizialmente, sembrava insormontabile:” Ho dovuto ricominciare la scuola dalle basi, dalle elementari, imparare a leggere, scrivere e a pronunciare il francese. Le prime volte, quando andavo per la città, mi fingevo sordo-muto per chiedere indicazioni in metropolitana.” In sei mesi ha dovuto sostenere esami di lingua provinciali e federali per poter trovare un lavoro.
Anche questa è stata una questione complessa: “Quando sono arrivato non mi è stata riconosciuta alcuna delle mie qualifiche da infermiere, e ho dovuto cominciare nuovamente da capo. Dopo due anni,però, ero arrivato ad avere un impiego fisso,anche se come infermiere ausiliario e non professionale, grazie anche alla totale padronanza del francese acquisita in precedenza”. Mi sono soffermata sull’aspetto lavorativo perché ascoltando l’intervistato mi sono resa conto di quanto questo sia stato importante nella permanenza di Antonio in Canada, la quale è durata quasi cinque anni. Ho immaginato di andare ad abitare in un posto nuovo e di sentirmi dire :” Signorina, nessuno dei suoi titoli di studio ha alcun valore”, penso che il mondo mi sarebbe crollato addosso.
“Così e stato,infatti” mi ha confessato, “ ma non ho perso tempo ha compiangermi: uno dei fondamentali insegnamenti conferitomi da quest’esperienza di vita all’estero è stato proprio quello di sapersi sempre reinventare e di non darsi mai per vinti.”
“Ti sei mai sentito “migrante”?” ho domandato ad Antonio”Sì”, mi ha risposto :” per quanto mi sia ambientato ho sempre avuto l’impressione di non essere a “casa mia”. La cultura Italiana non mi ha mai abbandonato e mi è mancata, anche se c’è da dire che questo è avvenuto principalmente nella prima fase della mia permanenza.”
Mi sono sempre chiesta cosa provino tutti gli immigrati presenti in Italia ad ogni manifestazione di razzismo nei loro confronti e me lo ha spiegato Antonio:” Quando vinsi il concorso come infermiere ausiliario in un ospedale italiano, una ragazza , invidiosa della mia posizione poiché a me subordinata, mi urlò contro: “Tu sei un maledetto migrante italiano, venuto qui per rubare il posto di lavoro a noi canadesi.”
“Come ti sei sentito?”, gli ho chiesto, “Essere trattati in questo modo fa ribollire il sangue fino agli occhi, fino a farli diventare lucidi.” Così mi ha risposto, e penso che non serva aggiungere alcun commento.
“Ma allora, se dopo anni avevi un buon impiego, avevi stretto amicizie e ti eri ambientato, perché sei tornato indietro?”
“Mi sono fatto male a una spalla e sono tornato in Italia. Sono passato da una temperatura i -30C a una di 18C. Era ottobre e andavo al mare. Ho deciso di rimanere spinto dai forti legami affettivi, consapevole che, se fossi ripartito, non sarei mai più tornato”.
Da queste parole, ho capito quanto sia difficile sentirsi davvero a proprio agio in un paese che non sia il nostro per quanto il tenore di vita in quest’ultimo possa essere alto. E’ una questione emotiva, interiore. Ho imparato ad avere ancora più rispetto di chi compie una scelta così difficile, soprattutto se per motivi diversi dall’amore e dalla curiosità.
Grazie papà.
Autore: Vito Conteduca - 10/12/2014
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